La storia di Aldo.
“Hai letto quello che scritto su Primo Levi, Sabry?” Chiedo a mia moglie. ” si l’ho letto. Bello. Ma anche io avrei una storia da raccontare sui campi di concentramento.
Ti ricordi che parlavo spesso di mio zio Aldo? Un uomo che è stato prigioniero in quegli inferni?” Mi risponde: si, certo. Una storia triste. Dai raccontamela! Facciamo un post! Anche lui è stato un ciriacese ed ha molto in comune con Primo Levi.”
“Ok, ci provo. Vado”:
“Nella vita quotidiana siamo sempre presi da quel vortice frenetico che ci avvolge e ci travolge. Sempre di corsa, presi dal lavoro, dalla casa degli impegni dei nostri figli ed ecco che la giornata in un lampo finisce. All’apparenza stanchi e stremati con la sola voglia di sdraiarsi nel letto e sprofondare nel sonno, restiamo in attesa di ricominciare tutto da capo.
Poi per caso la nostra attenzione si sofferma ad ascoltare un programma in TV che racconta la vita e la storia di uno dei più grandi scrittori del nostro mondo contemporaneo: Primo Levi. Mentre sono seduta lì ad ascoltare la sua storia all’improvviso la mente mi riporta a quando ero bambina.
Ricordo che io e mia sorella ci sedevamo per ore e ore in fondo al letto di mia madre ad ascoltare la storia di un uomo che ha vissuto tra le nostre mure per pochi anni. Un uomo che la vita si portato via troppo presto.
Prima comunque di riuscire a prendere il coraggio e di dargli l’opportunità di raccontare in prima persona la sua storia fatta di dolori e drammi inimmaginabili.
Quell’uomo era nostro zio Aldo. Io lo ricordo sempre chiuso in quella grande stanza. Un luogo che sarebbe poi divenuta la camera mia e di mia sorella è che oggi e la camera delle mie figlie. Abbiamo ristrutturato tutto l’appartamento ma quella stanza e’ stata l’unica a non aver subito ristrutturazioni.
Lo ricordo sempre solo e taciturno, con il passo lento e trascinato. Sembrava assente da tutto il mondo che lo circondava, ma se bussavo alla sua porta e gli chiedevo “zio zio posso vedere Candy Candy colorata?”, lui mi prendeva in braccio e mi faceva schiacciare il grande interruttore arancione che accendeva l’unica TV a colori che avevamo in casa. Nel resto dell’appartamento c’era solo un’altra TV ed era in bianco e nero. La sua però era una tv che aveva costruito da solo pezzo per pezzo. In effetti zio Aldo aveva solo una sola grande passione che lo faceva stare bene e questa passione si chiamava elettronica.
Grazie a lui che io e mia sorella avremmo poi passato ore ore a giocare con il Commodore 64. I nostri genitori non c’è lo avrebbero mai comprato, ma lui lo costruì per noi. Fino a quando un mattino se n’è andato portando con sé una vita fatta di dolori talmente grandi che preferiva non ricordare. Era il 1985 e io avevo solo 7 anni.
Mia madre però voleva che noi lo ricordassimo e non permise che il suo ricordo andasse perduto nella Memoria dei suoi discendenti. La sera ci raccontava le storie che hanno segnato in qualche modo, la vita di tutti noi.
Aldo è stata una persona riservata e piena di ingegno che per caso e per un errore burocratico è stato mandato in Germania nel periodo della II guerra Mondiale a lavorare nei campi di concentramento.
Di quel periodo durato pressoché un anno, lui avrebbe raccontato solo qualche sporadico episodio. Non raccontava praticamente nulla di quei giorni a parte la storia di un orologio che ha tenuto costantemente nella scarpa per non perdere il senso del tempo.
Sappiamo ancora che il giorno della liberazione lui è altri suoi compagni erano pronti per essere fucilati. Se non fu ucciso prima, fu solo perché all’interno del campo serviva la sua dimestichezza con l’elettronica.
Proprio come Levi fu salvato grazie alla sua capacità nella scienza, mio zio fu salvato grazie alla sua passione per l’elettronica.
Comunque quello che la sua bocca non riusciva a dire lo dicevano i suoi occhi che avevano visto cose umanamente inimmaginabili.
Quello che però noi sapevamo era la storia del punto di vista di mia nonna che aveva vissuto la sua assenza con i suoi genitori. Non avevano più notizie di lui e il mio bisnonno era malato da tempo. Mia bisnonna aspettava il ritorno di suo figlio Aldo ormai disperso da 1 anno.
E quel figlio un giorno è tornato ma come dire a sua madre che era tornato senza farle venire un infarto? Mio zio sapeva che doveva fare attenzione a non spaventare i suoi anziani genitori che probabilmente lo davano per morto. E fu così che decise di fermare un passante per strada chiedendogli il favore di salire al quarto piano e di suonare alla mamma dicendole che aveva avuto notizie di suo figlio Aldo, che stava bene e che da lì a poco sarebbe ritornato.
Il passante sconosciuto accetto’ di buon grado e si fece quattro piani di scale a piedi fino alla porta. Ebbe a malapena il tempo di dire che conosceva mio zio che mia nonna lo scaravento’ per terra facendolo quasi cadere dalle scale urlando “mio figlio è qua sotto lo so lo sento.”
A questo punto bisognava avvisare mio bisnonno Giovanni che era ricoverato in ospedale per un problema al cuore.
Il dottore si raccomando’ di dare la notizia del suo ritorno per gradi. Iniziare a dire che aveva scritto di stare bene e che da lì a poco sarebbe ritornato. Quindi tra nom molto avrebbe potuto riabbracciarlo.
Sarebbe potuto essere pericolosa una emozione così grande per il cuore di Giovanni. Mio nonno felice le chiese come stava e lei rispose “lo vedessi! ha una faccia così!!”. Fu così che il medico ridendo disse “cuore di mamma! A questo punto lo facciamo entrare ed abbracciare il suo amato papà!””
“Bella storia, Sabry, ma c’è un dubbio che mi assale a questo punto. Sai che secondo me Primo Levi e tuo zio sono stati nello stesso campo di concentramento? Pensaci un attimo. Sono tornati in 40 passando dal Friuli. Erano stati vestiti da capo a piedi dagli abitanti delle città che attraversavano per tornare a Torino. Anche la storia di chiamare i passanti in strada per avvisare del proprio ritorno dalla guerra, è ricordata nei racconti di Primo Levi” dico io.
Lei quasi sicura mi risponde:
“No no Ale i campi non erano gli stessi ma i ricordi si .
Quelli erano gli stessi. Stessi gesti, stesse paure, stesse speranze di chi ha vissuto una tragedia comune senza probabilmente essersi mai conosciuti. Zio Aldo non si è mai sposato ed ha sempre vissuto nella sua solitudine e nella sua introspezione.
Avevo 7 anni quando se n’è andato e oggi che ne ho 40, quando apro la porta di quella camera a volte mi sembra di vederlo. Appoggiato alla sua scrivania con il suo saldatore in mano. Mi sembra ancora di vederlo che appoggia gli attrezzi di lavoro per un attimo. Giusto il tempo di mettermi una mano sul capo, accarezzarmi e sorridermi. Giusto un attimo. Poi si riprende a lavorare. Per non ricordare. Siano gli altri a NON DIMENTICARE…”
di Alessandro Baccetti
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