Ci sono momenti della storia che l’uomo desidererebbe cancellare o nascondere, per un motivo o per un altro, tuttavia anche gli attimi più atroci hanno un motivo per essere ricordati.
Oggi scriviamo dei più bassi tra i momenti umani, di ciò che accade quando odio e ignoranza prendono il sopravvento sulla ragione: il genocidio, il più crudele e insensato tra gli atti umani.
Secondo la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, la definizione esatta di genocidio è: azioni d’odio commesse con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Seguendo questa definizione, possiamo individuare diversi stermini avvenuti in nazioni di tutto il mondo; ciononostante i numeri -sui quali ci si basa, sfortunatamente, per eventi simili- vengono spesso nascosti o falsificati, noto e impattanti nella storia.
Il primo è il genocidio armeno, forse il meno conosciuto, avvenuto tra il 1915 e il 1916 per mano dell’Impero Ottomano. Questo evento sarà il precursore per gli stermini successivi, con un numero stimato, secondo varie fonti, tra uno e due milioni.
Segna l’inizio di un circolo vizioso che continuerà, nel corso del secolo, tra ideologie malate e antisemitiche che condurranno a conseguenze catastrofiche.
Il secondo, senza dubbio il più noto e commemorato, è lo sterminio degli Ebrei per mano dei nazisti. Dal 1933 al 1945 la Germania precipitò nell’oscurità, seguendo le parole mostruose di un uomo meschino conducendo al genocidio più brutale della storia umana nonché quello più numeroso, annoverando oltre sei milioni di morti.
Vorrei aprire una parentesi riguardo la Shoah, poiché si collega all’ultimo genocidio trattato in questa riflessione: l’insensata visione di una “razza superiore”.
Troppo spesso si sottovaluta cosa significhi credere in questa ideologia: significa ritenere che tutti gli altri, persino persone vicine a noi, siano esseri inferiori, paragonabili ad animali selvaggi.
Coloro che sostengono la supremazia razziale, anche indirettamente, supportano chi distrugge quotidianamente le vite di chi viene ritenuto inferiore.
Per fortuna, queste mentalità stanno diminuendo nel tempo, poiché queste idee si fondano su pregiudizi e ignoranza, alimentando il degrado sociale e culturale di intere nazioni.
Ultima postilla prima di chiudere la parentesi: è importante ricordare che gli Ebrei nei campi di concentramento non furono solo schiavizzati e torturati (in modi che fanno tremare il cuore al solo pensiero) e uccisi a sangue freddo nei campi di sterminio. In certi casi la verità è ancora più agghiacciante: furono cavie da laboratorio e nulla più per i loro carcerieri tra Eduard Wirths, Joseph Mengele, Schumann e altri ancora.
Ora passiamo al vero protagonista di questa riflessione, quello che ha ispirato il progetto in primo luogo: il genocidio dei Tutsi in Rwanda, uno sterminio sistematico pianificato con cura da compatrioti per compatrioti, discriminati solo perché discendenti da altri che vennero nominati “superiori” da stranieri di una terra lontana.
Benché di breve durata, rispetto agli altri che abbiamo visto, cominciò di colpo il 7 aprile del 1994 e durò oltre 104 giorni fino al 19 luglio dello stesso anno, con un conteggio totale di 800 000 caduti, che vista la durata che neanche sfiora l’anno è ancora più mostruosa, dato che significa che ogni giorno morivano una stima di 7700 cittadini e veniva commesso un omicidio ogni 11 secondi.
L’intera popolazione ruandese cadde nel caos e nella disperazione, i sopravvissuti rimasero con ferite nel corpo e nell’animo.
Immaginate la scena: ogni undici secondi una persona, che sia uno sconosciuto o un vicino di casa o un compagno di scuola o un amico, cade a terra morto, con un proiettile in fronte, un coltello nello stomaco o un’asta piantata nel petto.
Tutto questo per cosa? Tutto per un odio antico, vecchio di generazioni, trasmesso da chi non era neppure più vivo al momento dello sterminio. Un odio che ha spinto amici, compagni di una vita e fratelli a uccidersi senza ritegno.
Solo per un nome diverso, un’etichetta imposta alla nascita, una condanna dalla quale non ci si può difendere.
di Edward M. Gablin