Luigi Bairo: essere beat

Si parla spesso, troppo spesso di Beat e di Psichedelia. Se ne parla e straparla da molte parti, soprattutto di questi tempi babbei in cui rivive superficialmente il modo di vestire e di suonare degli anni sessanta. Un ritorno di moda che svanirà in fretta com’è venuto. Si sa. Così procede la macchina del business, che nulla sa inventare, ma solo riesumare e riciclare le culture passate, riproponendole nella loro più fatua esteriorità,
dopo che queste sono state opportunamente sterilizzate, come in un vaccino, di ogni contenuto eversivo, destabilizzante.

Beat e Psichedelìa. Più facile assegnare un significato al secondo termine. Molto più arduo per la definizione Beat, soprattutto se vogliamo andare al di là della sua connotazione strettamente musicale. Il termine viene usato e abusato per indicare situazioni movimenti personaggi spesso diversi e persino in contrasto.

Per fare un po’ di luce, almeno su questo aspetto, chiediamo aiuto a chi il fenomeno beat non soltanto l’ha visto nascere, ma in Italia ne è stato uno dei fondatori ed esponenti principali.

Gianni Milano, classe 1938, poeta e pedagogista, è stato uno dei padri del movimento underground in Italia durante gli anni sessanta.

D. Non si poteva che coinvolgere te, per saperne di più. Che cosa significa insomma essere beat?
G. M. La domanda è intrigante e merita una risposta. E’ trascorso molto tempo ma, come dice la canzone, ‘l’amor mio non muore’. Il termine beat risale all’incirca al 1955, ed era un modo di dire musicale, jazzistico. Indicava la battuta, il ritmo. Fu Kerouac che con un istrionismo intenzionale volle tradurre la parola come una sincope di beatus. La cosiddetta beat generation fu, purtroppo, un’invenzione mediatica, desiderosa di definire, catalogare.
Matteo Guarnaccia, testimone delle nostre memorie e caro al mio cuore, scrive sul fenomeno: “Il valore artistico dell’intera produzione letteraria dei beaats è ben poca cosa se confrontata con il devastante impatto che ha avuto sull’immaginario giovanile… Ciò che univa questa singolare rete di resistenza individualista era la voglia di abbracciare la spontaneità, superando con un sol balzo la frontiera che separa il desiderio dall’azione… vennero battezzati dai media ‘beatnik’, con riferimento allo sputnik sovietico… il suffisso ‘nik’, di origine yiddish, era una velenosa insinuazione circa la fedeltà dei beat ai valori patri …era un movimento furtivo, essenzialmente
metropolitano e notturno, che coltivava la depressione, esibiva con orgoglio il proprio anticonformismo e la propria agitazione, aveva abolito il sonno, era terrorizzato dalla possibilità di un olocausto nucleare… Tutti condividevano una feroce logorrea… unita alla fissazione per il ritmo sincopato. Tra i beatnik c’erano molti reduci… nei loro ritrovi si confondevano buddhismo, cianfrusaglie messicane, bottoni di peyote, folklore dei nativi americani, pittura astratta…”.

D. Tutto questo era conosciuto in Italia ?
G. M. Per niente. I canali di comunicazione non erano certo quelli di oggi. Fu Fernanda Pivano, la zia strana dei capelloni, che con la sua cocciutaggine, senso della bellezza e amabilità, riuscì a introdurre nell’orto letterario italiano queste esotiche ed esuberanti, irriverenti ed oscene piante d’oltreoceano. L’effetto non fu immediato. A partire dal 1965, non so per quale influenza astrale, gruppi di giovani della marginalità metropolitana, si
ritrovarono nei parchi, nei giardini pubblici, nelle metropolitane delle principali città italiane. Li univa non la conoscenza della scena americana o una qualche ideologia specifica, quanto ’asfissìa per il sistema di vita nostrano, il desiderio di verità, di espressione, di pace, l’antimilitarismo, il rifiuto del consumismo e delle mode, l’anarchismo. La parola d’ordine dal 1964 al 1966 fu ‘Non contate su di noi’.

D. Mi viene in mente Wilfred Pelletier, indiano Odawa dell’isola di Manitoulin. Anche lui personaggio ignoto, non solo da noi ma anche in America… (1)
G. M. Di questo Pelletier circolò una breve opera ciclostilata. Ci impiegò diversi anni ad attraversare l’Oceano. Giunse in Italia soltanto all’inizio degli anni settanta. A proposito del comportamento dei Nativi americani di fronte ai conquistatori europei, Pelletier accenna appunto a questo ‘ritirarsi’. Stiamo curando un libro ispirato a Wilfred Pelletier. Spero che troverà presto un editore.

D. Abbiamo accennato ai canali di comunicazione. Non credi che l’inefficacia dei media dell’epoca non sia stata un limite, ma anzi abbia favorito lo sviluppo di modalità locali di vivere e di sentire l’appartenenza al beat ?

G.M. Quando ero bambino e leggevo fumetti, sapevo tutto sui Nativi americani. M’ero addirittura fatto, con tela di sacco, un vestito, con penne di gallina e tacchino infilate un po’ dappertutto. Avevo l’arco, di castagno, le frecce, un tomawak in legno, un nome, Aquila Rossa. Le mie terre erano le colline monferrine. I compagni della mia avventura esistenziale erano gli animali, le piante, gli orizzonti, raramente altri bambini, i taciturni contadini nelle vigne. La comunicazione, intensa, avveniva tramite una sorta di incorporamento, a volte del creato da parte mia, a volte di me da parte della natura. Là ho appreso la psichedelìa. Ho anche imparato a fare i segnali di fumo, da nessuno a nessuno, nel silenzio d’un mondo appena uscito dalla guerra. Segnali di fumo, nuvolette d’amore in giro per l’Italia.
Negli anni sessanta, quando si sviluppò l’eresia anticonsumistica e antisistema, quella del “non contate su di noi”, le
comunicazioni erano corporee, di toccamento, di abbracci e baci, anche tra maschi (cosa considerata oscena e scandalosa, da ‘froci’), e, per quel che riguardava tribù più lontane, tramite angeli leggeri in autostop, che, come raggi solari, partivano portatori di messaggi e quando arrivavano, a volte, non trovavano più nessuno. Le buone vibrazioni rimanevano sospese nell’aria, come rugiada. A chi aveva gusto spettava di succhiarle, al capellone anonimo e solitario ai bordi di una statale con il pollice levato a chiedere un passaggio. L’assenza di mezzi rapidi di comunicazione rinforzò il senso di appartenenza ma anche di orfanaggio, il sogno, alla Dylan, di spazi ampi, di libere occasioni di pace.
Gli incontri, però, quando avvenivano, erano occasioni di intenso piacere. Ognuno diveniva specchio all’altro. Raccontava l’avventura della vita: ed era bello stare ad ascoltarlo.

D. La povertà. Un elemento trascurato o forse rimosso, ogni volta che si torna a parlare di beat. Un po’ scomodo.
G. M. La povertà mise alla prova i neofiti. In realtà fu la perdita di costumi da palcoscenico di una recita, che altri avevano deciso si dovesse agire, per conquistare padri e madri ancestrali, per entrare fraternamente nel mondo, per essere più leggeri e meno timorosi dei ladri. Ricordi il messaggio? “A che serve accumulare tesori sulla terra se poi perdi l’anima!”. Occorreva andare oltre. Anche l’anima non ci appartiene. Noi apparteniamo all’anima, al
mistero, al flusso. Come il Cristo deposto dalla croce, sulle ginocchia di sua madre, noi siamo. Finalmente accolti, in un mandala unitario, dinamico. La povertà, che non è ostentazione, che non è abbrutimento, ma lievità, era la cartina di tornasole. I cantanti yé yé della televisione nazionale, con i loro costumi, trucchi e lamenti, che cosa avevano da spartire con quest’altro popolo che si purgava per cercare di dar vita a nuove forme sociali, di relazione, di percezione? Scomoda sì, la povertà. Per un anno abitai in una mansarda sopra piazza Vittorio.

Lì, tra l’altro, divenni buddhista. Ospitavo fino a quindici persone, maschi e femmine, in dolce, erotica e compassionevole promiscuità, sdraiati per terra nei sacchi a pelo. Non c’era denaro, giacché il mio piccolo stipendio di insegnante terminava presto. Andavano a scaricare ceste ai Mercati Generali. Li pagavano in natura. Si mangiava così. Non si era floridi e le gengiviti ci facevano sembrare apprendisti-Dracula. La stessa cosa avveniva a Milano, a Genova, a Lucca, a Firenze, a Roma… Sovente m’è capitato, nelle mie trasferte a trovare altre tribù, di dormire sul
marciapiede, nel saccoapelo inseparabile, con fogli di giornale come materassi, temendo soltanto, a Roma, i raid dei fascisti o della polizia, la quale ultima usava, con frequenza, il foglio di via, per allontanarti dal luogo. ‘Sorella povertà’, la chiamò Francesco di Assisi. E non fu uno scherzo!

D. Quali furono gli ascendenti del tuo essere beat ?

G. M. Li individuai a Torino, in un’intervista: Francesco d’Assisi, sciamano capace di parlare con tutti; Buddha, grande anarchico compassionevole, fratello delle creature; Einstein, folle scienziato che tradusse in formule occidentali i messaggi dei Veda; Ginsberg, guru psichedelico, in viaggio nelle coscienze aperte su
un’astronave peyotica, come fece Rimbaud sul suo Bateau ivre.

D. Ma non si trattò soltanto di un’esperienza culturale e filosofica. Ci fu l’impegno. Il pacifismo. Nella nota biografica di “Il Maestro e le Margherite”, leggo dei tre giorni di sciopero della fame nel 1966 a Torino, contro la guerra in Vietnam

G. M. Chiesi nel 1966 alla Questura di Torino il permesso, a nome di beatnik locali, per una manifestazione contro la guerra in Vietnam: primo documento ufficiale sull’underground.
Permesso negato, manifestazione non-violenta, botte e cariche da parte della polizia, tre giorni di sciopero della fame. Tempi di capelli lunghi e minigonne, di letture poetiche in pubblico fischiate e minacciate da lancio di ortaggi, di fame viscerale, di fughe da casa di minorenni innamorati, di comunità povere ed estasiate. Nell’inverno del 1966, quando fui invitato da Fernanda Pivano a casa sua a Milano, lessi, sui muri della Metropolitana di Cordusio, ‘W i veri beat’. Era la fine. Risposi ironicamente affermando che il prototipo del metro stava a Londra ma non conoscevo alcun luogo che proteggesse il prototipo del beat… Anche tra i ‘capelloni’ era arrivato il virus del confronto, della
competizione, del modello. Era ora di morire per rinascere, senza piangere come facevano gli scimmiottatori cantanti televisivi, sui palcoscenici illuminati ‘Ma che colpa abbiamo noi se non siamo come voi…’. La scelta di vita era una rivoluzione esistenziale, non il refrain per una canzone. Alcuni di quei ragazzi non arrivarono all’età adulta. Nel Giardino dei Randagi ci sono le loro tombe.
“nulla da piangere, se non per gli Esseri/ del Sogno”
(Allen Ginsberg)
beat,/ vuol dire / NIENTE ESPLOSIONE / del dentro /
sulle antenne dell’Alta Tensione / e torrenti a Niagara / di
lacrime insepolte / e poi / anche la sporcizia / pelle a
pelle / e pelle nostra / e soprattutto / A CHE SCOPO?
(Gianni Milano – Il maestro e le margherite – Stampa
Alternativa)

D. Oggi dilaga la moda beat, i complessini a Sanremo che scimmiottano quelli degli anni sessanta e via dicendo. Al di là di queste deprimenti esumazioni, che hanno il solo scopo di pompare nuovo carburante agli esausti mercati della musica e della moda, quale può essere un discorso più sostanziale di attualità e di continuità del movimento beat?
G. M.: Ogni tempo produce la propria storia. La estrema risposta che alcuni diedero al Sistema nella seconda metà degli anni sessanta, escludendo, in Italia, il Movimento studentesco che si muoveva su linee prevedibili, rigide e confessionali, era figlia di una società che allettava poco, che stabiliva rapporti con i suoi membri a muso duro. Repressione, illusione, mistificazione, conformismo. I giovani che fecero scelte, a volte ingenue e pericolose, di rifiuto dell’allora nascente Villaggio globale, miravano a divenire santi, persone integrali, non ingranaggi
integrati. Tale aggettivo era considerato un insulto e solo Krishnamurti riuscì a dare un significato positivo all’esecrato invito all’omologazione. Krishnamurti, infatti, affermò che compito di ciascuno di noi è di essere in pace, all’interno e all’esterno di noi, non scissi, non collezione di reperti anatomici da mostrare al mondo.

D. Non uccidere il padrone, ma uccidere il padrone che è in te ?
G. M. : Oggi è più difficile per i nuovi giovani comprendere come la scelta passi tra il rivoluzionare se stessi o l’accogliere alibi miglioristi, puntando sempre sulla merce, sulle ricette ideologiche, sulle lusinghe volgari. In fondo, quando io citavo Buddha, il Risvegliato, ricordavo a me stesso le tentazioni che Siddharta subì durante la sua lunga meditazione che lo portò alla Liberazione. Vi erano le lusinghe cosce lunghe, l’offerta di potere sul mondo, il terrore della fine dell’io…: cianfrusaglie che come ragnatele avrebbero avvolto l’uomo seduto in profonda concentrazione. Che fossero cianfrusaglie i giovani di allora lo capirono subito ed anche se non furono sempre in grado di
elaborare risposte organiche seppero dire un no reciso, formalmente visibile, a quelle che Brassens chiamava “le trombe della fama”. Demistificazione, proposta di semplicità ed immediatezza, attenzione al corpo, lettura estatica del mondo, rifiuto della violenza, militare, economica, culturale, religiosa… E da dove venivano questi ragazze e queste fanciulle? Parevano alieni, erano visti come matti, derisi, perseguitati, rinchiusi nelle patrie galere, processati, giovani che avevano come soprannome Scheletrino, Saigon, Ombra e non possedevano che la loro vita, cercavano di essere e non di avere, come sollecitava Fromm, senza scrivere libri, ciclostilando clandestinamente giornali subito
requisiti… Vedi un po’ tu! Non essendo missionario, il cosiddetto “movimento” visse della sua vita, per tutto il tempo possibile tra un respiro e l’altro, tra un digiuno e l’altro, tra un foglio di via e l’altro, straccione, povero e senza ciccia. Non è morto perché era ricerca e la ricerca, come l’amore, non muore mai, si trasforma, vede posti nuovi, incontra scherzi del destino, allunga la sua ciotola sapendo soltanto dire grazie. Il beat ruppe il guscio d’una realtà ch’era sempre stata presente, ma non la si era voluta vedere, indagare. Nel momento in cui si superò la separazione e
si rigenerò l’unità di pensiero, di visione e di azione, ebbe inizio la diaspora. I nuovi ricercatori beatizzarono la realtà. Alleluja!

D. Ho rivisto Woodstock in questi giorni, il film. Ciò che prevale, nelle parole di chi partecipò a quell’esperienza, fu la sensazione di essere agli albori di un grande cambiamento per l’umanità, una nuova era, in particolare per l’occidente. La sensazione che l’America sarebbe stata la guida, non più economica e militare, ma spirituale, per il mondo intero. Invece accadde l’opposto. Woodstock fu l’evento culminante e l’epilogo di una grande utopia ? 
G. M. : Woodstock fu sostanzialmente una creazione virtuale, una fonte di quattrini per coloro che, avendo organizzato l’incontro musicale, seppero ricavare dai diritti sui filmati una barca di soldi. Non nego che la gente ci fosse, anche se pochi avrebbero pensato ad un raduno così sostanzioso; non nego che sia stato un momento di vita e amore con tanta musica, tanti aquiloni di sogni fatti volare per un poco nel cielo al tramonto. Penso però che prevalse l’aspetto mediatico, una sorta di “Alzati Lazzaro e cammina”, quando, appunto, il Lazzaro flower power
era stato sepolto, i reduci stavano tornando a casa, alcuni film come Easy Rider o Il ristorante di Alice o Fragole e sangue annunciavano malinconicamente l’8 settembre d’una esperienza continentale. L’Amerika, in quegli anni, superò il suo isolazionismo e la tendenza ad essere la prima della classe.

D. Durante la depressione del dopo-Woodstock, quando ci si rese conto che difficilmente il movimento avrebbe dato frutti in Occidente, vi fu un esodo verso est. A Bali in Indonesia ho voluto vedere la mitica Kuta Beach, che durante i primissimi anni settanta ospitò tribù pacifiche e stonate in fuga drastica dall’occidente. Peccato che oggi sia uno dei posti peggiori di tutto il sud est asiatico.
G. M. Molti reduci volsero lo sguardo ad oriente, all’Europa rinascimentale, alle terre esplorate da Marco Polo. Ci fu una diaspora verso la cuna del sole. Il pragmatismo caro ai Padri fondatori (Dio e fucile) fu soppiantato da naiadi ed elfi, da Sacco e Vanzetti, dalle culture primitive, dal richiamo della bellezza. Già l’aveva mandata a farsi fottere Allen Ginsberg quella vecchia America bigotta e guerriera, che gettava napalm e defoglianti sul Viet-nam, essa, amazzone infeconda e frigida alla ricerca di un nemico, da sterminare.
In parte i Beatles erano riusciti a coprire di ridicolo con Yellow submarine le pretese da Braccio di ferro dell’America ufficiale. Molti figli delle università puritane tentarono di ricreare un arco di alleanza con la vita. Alcuni per poco tempo ci provarono ma poi tornarono al businnes, altri trasformarono la loro esperienza in moda di paillettes. Pochi continuarono sulla strada, convergendo verso le nuove esigenze, le nuove realtà, piccoli deva protettori, voci che si ascoltano nel silenzio di brughiera.
Come dissi una volta a Spoleto: ”Che colpa hanno i padroni se noi siamo servi?”. Se qualcuno di qua dell’oceano scimmiottò, sua è la responsabilità. La rivoluzione della coscienza è un fatto intimo, non si può acquistare al mercato dell’usato.

Intervista realizzata nel settembre 2001

di Luigi Bairo

 

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