Capaci di continuare a lottare, trent’anni dopo Capaci, trent’anni dopo. Capaci di memoria ma soprattutto di verità e resistenza. Sì, perché il problema italiano nella lotta alle mafie (e non solo, invero) è attraversato da queste due parole.
Le stragi di mafia del ’92 non sono comprensibili pienamente sul piano storico-politico se restiamo ancorati al tradizionale domicilio criminale per interpretarne le strategie di potere. Ha ragione Isaia Sales quando scrive nel suo importante testo Storia dell’Italia mafiosa che il crimine organizzato del nostro Paese è innanzitutto un linguaggio di relazioni tra élite che gestiscono il potere a tutti i livelli del vivere civile, sia locale che nazionale.
Le mafie italiane sono parte fondamentale della narrazione di dominio con cui le classi dirigenti hanno sempre scandito il loro vocabolario nell’attività di governo dei nostri territori. Falcone e Borsellino sono stati i magistrati più combattuti non solo all’interno del mondo delle toghe italiane degli anni Ottanta del Novecento ma anche isolati dal sistema Paese che non ha saputo cogliere, né in quel periodo né dopo, la straordinaria densità investigativa e interpretativa del loro lavoro. I due magistrati siciliani – dopo le inchieste sociologiche di Danilo Dolci e quelle giornalistiche di Pippo Fava, senza dimenticare le analisi di Pio La Torre sui patrimoni delle mafie – approfondiscono la struttura e la (profonda) vitalità sociale del potere mafioso che trascende il consueto radicamento del fenomeno nell’ambito dei fatti criminali e della violenza urbana organizzata.
Trent’anni dopo Capaci e via d’Amelio, prevale ancora la retorica e l’ipocrisia nel ricordare queste monumentali biografie di resistenza: l’esigenza è normalizzare la loro storia, narcotizzarne il potenziale rivoluzionario delle intuizioni e della dignità istituzionale che li accompagna fino all’ultimo istante di vita. Sono tre decenni che legittimiamo una lettura parziale del ’92, amputando la verità sui mandanti di quel terribile rosario di morte tra il 23 maggio e il 19 luglio.
Dobbiamo avere il coraggio di affermare questo nostro diritto collettivo alla rabbia e non avere paura di chiedere verità e giustizia su quei mesi sporcati dal sangue innocente dei giusti. La caratteristica del potere in Italia è la frantumazione dell’autorità dello Stato in svariate statualità parallele (ad esempio, le mafie e la massoneria deviata) che si costituiscono in microstati all’interno dei quali viene amministrata la quotidianità di intere realtà territoriali non più circoscritte soltanto a Sud di Roma, come le indagini giudiziarie degli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato. Falcone e Borsellino comprendono (e vivono con disagio e dolore) questa specificità del nostro Stato che ha fatto, e per certi versi continua a fare, del nostro Paese, in Occidente e nel mondo, il vero laboratorio politico di concetti chiave quali democrazia criminale, capitalismo mafioso e borghesia armata.
È arrivato il momento di liquidare la retorica del piagnisteo, le celebrazioni asfittiche, le liturgie danzanti, tutte espressioni di una pedagogia del compromesso che Falcone e Borsellino hanno ostinatamente combattuto in vita per ripensare in modo radicale l’antimafia, a partire dalla (doverosa) ricerca della verità sui mandanti occulti degli omicidi del ’92. L’antimafia, oggi, non può che porsi dentro una pedagogia del cambiamento sociale che traduca nella prassi le idealità dello Stato della Costituzione, sfregiato in tutti questi decenni e sostanzialmente in minoranza nel nostro Paese. È una verità amara, scomoda, urticante ma che non si può più sottacere. Farlo, significherebbe essere complici di chi ha ucciso Falcone e Borsellino per poi ipocritamente commemorarli. I morti non fanno paura quando viene anestetizzata la loro storia, espungendone i luoghi più significativi del loro pensiero-azione. Diciamola tutta con chiarezza: fa comodo a uno Stato corrotto (e alla falsa coscienza popolare che ha subito la sterilizzazione della memoria) pensare che i Corleonesi di Riina e Provenzano abbiano prodotto autonomamente la mattanza del ’92.
Le democrazie criminali si reggono sulla manipolazione della memoria, della coscienza e dell’educazione, legittimando in tal modo il loro disordine etico come (necessario) ordine politico-sociale.
Noi non intendiamo piegarci a questo racconto del passato e del presente, così come non intendiamo accettare passivamente la sconfitta dello Stato della Costituzione. L’antimafia è un modo di intendere la vita perché è costruzione di una cultura militante in grado di coniugare la ricerca della verità (come metodo pedagogico dinanzi al passato e al presente) con la pratica della giustizia sociale (il futuro quale opportunità di scoperta e tutela di nuovi diritti di prossimità). Trent’anni dopo, ripartiamo da Capaci perché siamo capaci di memoria, verità e resistenza. Capaci di umanità. Capaci di contrastare le mafie e il loro sistema di relazioni con gli apparati corrotti del nostro Stato. Capaci, in definitiva, di continuare quella lotta, trent’anni dopo. Per Falcone e Borsellino. Per i nostri caduti. Per lo Stato della Costituzione.
Pino Masciari, imprenditore e testimone di giustiziaGiancarlo Costabile, ricercatore e docente di Storia dell’educazione alla democrazia e alla legalità, Università della Calabria.
di Pino Masciari