Camminare per la tua città e renderti conto che non esiste strada che non hai ancora battuto. Non esiste sguardo che non hai ancora ricambiato. Non esiste Piazza che non hai ancora vissuto e neppure albero che non hai ancora osservato. E tutto lì, fermo e immobile davanti ai tuoi occhi ancora frastornato dal mancato susseguirsi delle cose. Guardo e penso che un tempo Cirié non era così.
Un tempo gli sguardi erano gesti che portavano a unione tra la gente. Un tempo le vie ora deserte, erano affollate. Le piazze straripavano di ragazzi e bambini. Nulla era fermo. Il movimento rendeva la città viva.
Comunque cammino e cerco di ricordare. Ricordo gli anni dell’infanzia in cui la strada iniziava a farsi sentire. Ricordo la voglia di libertà. La voglia di uscire. Di stare con gli altri. Avevamo sette o forse otto anni e ci sentivamo i padroni del mondo per il solo fatto che potevamo uscire di casa e scendere in Piazza Castello con i nostri amici. Al solo pensiero che potevamo andare a passeggiare sotto i portici o andare all’Oratorio Magnetti ci sentivamo i padroni del mondo.
Ma avevamo l’autorizzazione a fare tutte queste cose ad una sola condizione: stare tra cugini e non rimanere mai soli.
Perfetto! Carlo la domenica mattina percorreva Via Ginestre, proseguiva per Corso Nazioni Unite e suonava il campanello di casa mia in Piazza Castello.
Da lì passavamo per via Giordano a prendere Massimo e insieme via verso la chiesa di San Giovanni.
“Andate a messa mi raccomando” ci dicevano le nostre madri che erano tre di cinque sorelle arrivate da poco da un paesino sperduto della Calabria dove non succedeva mai nulla di male. Dove i bambini potevano scorrazzare per le strade senza pericoli.
Seppur proveniente da una remota provincia dell’estremo Sud d’Italia, capivano però che bisognava essere più prudenti adesso. Nell’ultimo decennio appena passato Cirié era diventato un grande paese abitato da diverse persone provenienti dalle più disparate parti d’Italia.
Quindi tutti stranieri in patria come loro stessi. E poi più macchine e più gente sconosciuta. Adesso la televisione era già presente nelle case di tutti e le notizie di cronaca riempivano i telegiornali.
“State sempre vicini. Non parlate con i grandi che non conoscete. Non prendete caramelle da nessuno. Non bisticciate con nessuno. E se fate a botte e le prendete quando tornate a casa ci sono altre botte che vi aspettano: le nostre!”
I nostri volti divenivano angelici e asserivano ad ogni richiesta che ci veniva fatta. Le raccomandazioni proliferavano e ogni minuto si arricchivano di una nuova pitagorica affermazione “State lontano dal cinema Richiardi. Quello che hanno chiuso da poco. Ci vediamo gente strana uscire da lì dentro.
Poi state nel portico di destra in via Vittorio Emanuele perché c’è più gente. Attenti alle macchine e se qualche donna vi dice di seguirla ditele di no! Ci sono persone strane in giro che prendono i bambini. Lo abbiamo visto al telegiornale”.
“Si abbiamo capito! Adesso basta! Ciao’, noi andiamo” in genere era Massimo a chiudere il discorso con le nostre madri e noi dietro a seguirlo.
Ovviamente la prima cosa che ci passo’ un giorno per la mente fu quella di andare a vedere cosa facessero mai quelle strane persone che uscivano dall’ex cinema Richiardi. L’andare in chiesa lo avevamo già scartato a priori. Tanto sapevamo come andava a finire. Le signore anziane ci cacciavano puntualmente dalla chiesa. Facevamo troppa cagnara, non stavamo mai zitti. Cercavamo le ragazze per potergli parlare mentre pregavano. Coro, ma mentre tutti intonavano “il signore ha messo un seme” noi coprivamo le note con parole colorite calabresi sentite dalle nostre mamme in altre occasioni d’ira nei nostri confronti. Puntualmente venivamo presi per un braccio e accompagnati fuori. Don Vittorio ci diceva di fare i bravi e di andare all’Oratorio a divertirci e non in chiesa. Quindi decidemmo che la
Chiesa non faceva per noi. Poi neanche capivamo quello che diceva il prete. E le ragazze non ci parlavamo mentre pregavano. Ridevano, ma lo facevano di nascosto altrimenti il ceffone dei loro papà era proprio dietro l’angolo.
Il vestito della domenica era d’obbligo. Quel vestito si poteva mettere solo in quel giorno e in nessun altro.
“Ci sporchiamo tutti se entriamo dentro il cinema abbandonato. Si accorgeranno che non siamo andati in chiesa” dissi io sempre attento a fare le cose nel verso giusto.
“Sei proprio un cagasotto. Hai paura che ci siano dei fantasmi lì dentro che ti sporcano i vestiti?” Continuo Massimo
“Ragazzi guardate che i fantasmi ci sono. Ci sono eccome. Avete sentito le nostre mamme?” Continuo Carlo. “Vedono uscire gente stana da lì dentro. Dai andiamo a vedere!”
“Ragazzi siete sicuri?” Continuavo io. ” magari andiamo in chiesa a fischiare dietro le orecchie dei fedeli e a chinarci quando si girano. Poi tanto da dove entriamo? La porta è chiusa.”
“Ti sbagli! Porta aperta! Dai andiamo!” Disse Massimo spingendo leggermente il cancello di legno trasandato che si trovava davanti a noi.
Fuori dal cinema che un tempo fu orgoglio per la Città c’erano delle scritte fatte con la vernice spray in cui si inneggiava alla democrazia Proletaria. Non sapevamo di cosa si trattasse, ma quelle parole io le avevo già sentite in TV. Ricordo che mio padre passava ore a guardare un programma televisivo chiamato “tribuna politica” .
Era di una noia incredibile, eppure lui ascoltava e imprecava in toscano contro il politico di turno che veniva intervistato. Io restavo fermo ad ascoltarlo e aspettavo che finisse quel programma.
Mio padre si alzava dalla sedia sempre molto arrabbiato dopo le interviste dei politici e mi dava il permesso di guardare i cartoni animati. I canali erano pochi, ma Goldrake in genere iniziava sempre dopo tribuna politica.
Non capivo bene cosa c’entrasse la politica con i fantasmi che abitavano il Cinema Richiardi.
Lo avrei scoperto da lì a poco….
continua…..
Con Massimo e Carlo.
di Alessandro Baccetti