Le responsabilità pesano

Una storia drammatica quella di Marco, ventitreenne di Cafasse, che si è conclusa nel peggiore dei modi: con la sua morte. Una morte inaccettabile per la sua famiglia, che poteva e doveva essere evitata, una morte inconcepibile per chiunque, perchè tutti noi potremmo diventare la famiglia di Marco oggi stesso.

La storia di Marco ha dell’inverosimile: viene portato al pronto soccorso dell’ospedale di Ciriè poichè aveva cercato di suicidarsi; quella sera infatti aveva ingerito un cocktail di farmaci dopo aver avvisato un amico tramite un messaggio whatsapp.

Marco si sentiva fuori luogo in questo mondo da sempre, quasi come se reciprocamente fossero inadatti l’uno all’altro e questo malessere era evidente ed intrinseco in lui già dall’adolescenza.

L’evento è da collocare alla fine di aprile dello scorso anno. Ricorderete bene che a causa delle restrizioni causate dall’epidemia del Covid e dalle conseguenti normative, non si poteva accompagnare il malato oltre la soglia del pronto soccorso; da questo momento gli operatori sanitari prendono in carico (e secondo me anche sotto la loro responsabilità) i soggetti.

Talvolta questa procedura ha avuto esiti positivi, in quanto il personale si trovava a lavorare più serenamente, senza parenti tra i piedi e senza lo stress per i continui solleciti degli stessi per visite o responsi che tardavano ad arrivare.

L’altra faccia della medaglia però, caricava lo stesso personale sanitario della responsabilità per la custodia dei pazienti, soprattutto se non in grado di intendere e di volere.

Marco è morto. Ha lasciato l’ospedale, si è recato presso un ipermercato nelle vicinanze per acquistare un lenzuolo e ha concluso il suo progetto suicida in zona Battandero, impiccandosi. Il tutto senza che il personale sanitario se ne accorgesse.

Marco è morto. Come è possibile dunque che per questo paziente particolare, non siano stati adottati provvedimenti altrettanto peculiari?

La presenza di un familiare che gli stesse accanto non era prevista, ma Marco era in una situazione singolare in quel frangente al pronto soccorso e sebbene sia pacifico che non si potesse destinare un operatore esclusivamente alla sua sorveglianza, allora era necessario agire diversamente: fondamentale però che non fosse mai e per nessun motivo lasciato da solo.

Il ragazzo ha avuto il tempo per andare ad acquistare tutto il necessario per attuare il suo piano suicida è stato laciato solo ed abbandonato per molto tempo, tanto è vero che il personale si è accorto della scomparsa (e ha dato l’allarme) solo dopo una telefonata arrivata dalla mamma di Marco per chiedere informazioni sulle sue condizioni.

Un ospedale come quello di Ciriè ha tutto il diritto di tutelare il proprio personale, ma allo stesso tempo deve metterlo in condizione di operare in maniera ottimale su tutti i pazienti, attuando tutte le misure del caso

E’ impensabile che si possa accettare un epilogo come quello di Marco per qualunque famiglia.

Un ospedale, come una scuola, deve garantire la sicurezza della struttura e un numero adeguato dell’organico. Immagino se capitasse un episodio simile in una scuola dell’obbligo. Un bambino si allontana volontariamente e all’esterno viene investito e ucciso. Chi si deve accollare le pene? Solo la famiglia che ha perso un figlio? Assolutamente no. La responsabilità è di tutto il personale presente in turno.

Marco, nel mio esempio, è il bambino.

La famiglia avrà un dolore lancinante a vita, ma l’ospedale deve mettersi una mano sulla coscienza e una sul portafoglio. D’altra parte è risaputo che chi sbaglia, paga.

di Cinzia Somma

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