La serata organizzata da Radio Re-Start in occasione del trentennale della strage di Capaci ha portato una sala gremita di persone a ricordare e a riflettere su quanto avvenne il 23 maggio 1992, alle ore 17.58 sull’autostrada che collegava l’aeroporto Puntaraisi a Palermo.
Una strage per tutti, soprattutto per quegli italiani onesti che nella giustizia ci credevano e che vedevano nel giudice Giovanni Falcone la possibilità di debellare una volta per tutte la questione mafia dalla Sicilia e da tutto il territorio nazionale.
Un brillante Marco Rizzo ha coordinato e condotto egregiamente la serata, portando sul palco due agenti della scorta, di cui uno sopravvissutto alla tragedia: Francesco Mongiovì e Angelo Corbo, “dimostrazione vivente che quel giorno non ha funzionato tutto esattamente come pensava la mafia; se ci sono sopravvissuti, allora qualcosa è andato storto”. Bene, ma non benissimo.
Coinvolgente, ma a tratti drammatici i racconti dei due. Angelo è stato assegnato “d’ufficio” alla scorta, Francesco lo ha voluto fortemente, spesso infatti, pur dovendo fare il turno pomeridiano, si recava in questura già alle sei del mattino, sperando che un collega disertasse l’impegno e lui potesse prendere il suo posto.
Scelte differenti, ma uguale impegno e passione per il lavoro che andavano a svolgere.
Servire il giudice Falcone era un onore per loro, per la missione che voleva portare a termine, ma soprattutto perchè dava loro speranza che il cancro siciliano cessasse di esistere. Stimavano l’uomo per la serietà con cui svolgeva il suo lavoro, nonostante le sue scelte lo portassero a condurre una vita blindata dove anche il privato era ben poco privato.
Gli aneddoti che hanno raccontato sono stati talvolta un pugno allo stomaco: durante il loro turno di lavoro arrivavano a cambiarsi fino a quattro camicie al giorno, dovevano essere sempre presentabili, ma la tensione era troppa e il sudore non si riusciva a gestire.
Anche la loro vita non è stata molto semplice: non potevano (e non volevano) condividere informazioni con i familiari, non avevano la facoltà di riflettere insieme a loro, addirittura Corbo non aveva detto ai genitori della sua mansione in questura, per evitare preoccupazioni.
Una vita difficile quella della scorta, quasi quanto quella degli scortati: erano consapevoli di “aver messo la morte dietro la porta”, di essere morti che camminavano e di viaggare su “una bara con le ruote”, così come chiamavano confidenzialmente tra di loro le auto di servizio… e poi “gli scudi umani” come definivano loro stessi.
Il racconto dell’attentato strideva con il clima sereno che si era creato, quei due uomini sul palco, sembrava di conoscerli da sempre. Due pazzi, due incoscienti “perchè se rifletti su quello che fai ogni giorno non puoi vivere al meglio la tua missione, per accettare un servizio simile non sei sano di mente”, così hanno parlato di loro stessi i due agenti.
Cosa avete fatto quando vi siete accorti di essere sopravvissuti? Acciaccati, ma vivi?” ha chiesto con un filo di voce Marco. “Il nostro lavoro: sanguinanti e zoppicanti abbiamo fatto da scudo umano all’auto del giudice”; un altro pugno nello stomaco.
E poi l’illusione che anche il giudice fosse sopravvissuto, che fosse stato portato in un luogo veramente protetto e segreto. “Mentre facevo la scorta all’auto incidentata, ho guardato all’interno e i miei occhi hanno incrociato quelli di Falcone. Erano sofferenti, era addolorato, ma era vivo”.
“Dal quel 23 maggio sono diventati tutti amici di Giovanni Falcone, ma in vita è stato delegittimato, criticato, deriso e ucciso”. La gente del quartiere non ha esitato a chiedere di isolarlo “poichè le sirene e le auto blindate davano fastidio”.
Anche lo Stato ha fatto la sua parte, obbligando il giudice Falcone (ed il collega Borsellino) a trascorrere un mese all’Asinara, tempo necessario per preparare l’istruttoria per il maxiprocesso, presentando poi loro il conto per le spese di soggiorno, come se fossero stati in villeggiatura.
I due Signori pagarono.
Dunque cosa possiamo fare adesso? Così a caldo direi “nulla”. Io ho poca fiducia nella giustizia, pochissima nelle istituzioni, ma come dice la saggia Stafania Di Loreto, “la memoria è l’arma più potente che abbiamo” e allora ricordiamo, non dimentichiamo che qualcuno ha lottato per la nostra libertà e qualcun’altro ha pagato con la vita per questa lotta.
di Cinzia Somma
Foto Muv Press